Psiche Perennis

 

Il significato di Natura

Se vogliamo capirci, è necessario sapere a cosa ci riferiamo. Potremmo evitare in questo modo errori di pensiero, fraintendimenti comunicativi e azioni collettive inefficaci.

La parola natura deriverebbe dal latino nàtus, nascere, che, insieme ad un suffisso del participio futuro, urus-a, andrebbe a denotare “quello che sta per nascere”, “la forza che genera”. Secondo taluni potrebbe anche indicarne il participio passato, derivazione dalla traduzione greca di physis, dal verbo phuo: ciò che è stato, ciò che è. Per Heidegger questo termine può essere collegato con la parola phàos, phòs che vuol dire luce. Da questa iniziale constatazione possiamo dedurre la difficoltá nel delimitare il dominio di questo termine per circoscriverne il suo utilizzo. Possiamo forse parlare di qualcosa che non è mai stato? O che non è mai venuto alla luce? Come se non bastasse, il termine denota, come ci suggeriscono per esempio le parole “sovrannaturale” o “forze naturali”, aspetti sia energetici, che sfuggono alla comprensione umana, che quelli materiali.
Per tale motivo, potrebbe essere opportuno delimitare il dominio della parola natura per sottrazione, cioè definendo quello che natura non é. Seguendone l’etimologia, risulterebbe contro-natura ciò a cui è stato impedito di nascere, arresto d’espressione della forza generatrice, il blocco di un flusso primigenio e perenne. Così, l’aggettivo “naturale” suggerisce che uno degli usi comuni che si fa del termine, soprattutto in ambito scientifico, è proprio in relazione al processo organico che opera nel mondo biologico. Quando diciamo che qualcuno è morto per cause naturali o parliamo di nascita naturale, intendiamo che non c’è stato nessun evento che ha interrotto l’andamento dei processi organici dall’esterno, niente che ha bloccato questo svolgersi della vita.

Per i primi sviluppi di studio negli anni ’80 di questo concetto in relazione all’essere umano, alla disciplina psicologica non è bastata la definizione dell’aggettivo “naturale”, poiché, viene detto, è “improbabile che ci siano risposte umane specifiche dirette al dominio naturale in questo senso di vita organica[1], preferendo invece parlare di “ambiente naturale”. Ciò non è più al giorno d’oggi del tutto vero: l’essere umano presenta risposte specifiche nell’interazione con ogni tipo di vita organica riconosciuta come tale. A questo proposito è stato uno psicologo, Erich Fromm, che per primo, negli anni ’60 ha coniato il temine “biofilia”[2] cioè attrazione verso la vita; qualunque forma di vita è in genere più interessante di ogni altra cosa inorganica o astratta. Pensiamo solo ad un bambino che, giocando, incontra un animale o insetto di qualsiasi tipo. Se uniamo questo concetto con quello di "Gaia" ne possiamo dedurre che ogni parte della natura può essere considerata vita[3], ma di questo parleremo altrove.

In ogni caso, il concetto di ambiente naturale ha più spesso soppiantato, e lo fa tutt’ora, quello di natura sia in ambito scientifico che nell’uso comune. L’immagine che appare immediatamente quando pronunciamo la parola natura può essere quella di una foresta pluviale, l’ambiente di una montagna o le profondità di un oceano. Ma, come abbiamo visto, qui non si tratta di natura, quanto più di cosa ambiente naturale. Tale concetto sembra che sia chiaramente individuabile nelle nostre rappresentazioni perché ci contrappone immediatamente due imagini: da una parte il dominio di materia organica e inorganica così com’è e, dall’altra, il prodotto costruito dell’attività umana - cioè l’unica attività in grado di andare contro-natura. Categorizzare l’ambiente naturale come opposto a quello antropico, però, non è privo di criticità, di cui è estremamente utile prendere atto, dal momento che l’uso approssimativo del linguaggio porterà inevitabilmente a fraintendimenti nella comunicazione e quindi nelle azioni collettive. Citerò alcune di queste problematiche che lo psicologo Joahim F. Wohlwill tratta in una delle prime pubblicazioni scientifiche dedicate al rapporto tra il comportamento umano e l’ambiente naturale.[4]

Il primo problema sta nel fatto che l’ambiente naturale e l’ambiente artificiale non sono sempre distinguibili, come per esempio non lo sono un lago naturale e un lago artificiale. È altamente implausibile che una persona non esperta in materia riesca a rendersi conto della differenza tra i due. Nonostante ciò, se l’immagine viene rinforzata da una spiegazione e illustrazione degli effetti dell’inondazione della pianura o del letto di un fiume originale, altererebbe probabilmente la risposta cognitiva, affettiva, comportamentale dell’individuo alla vista di quell’area. Prendiamo un altro esempio, quello di un campo di grano coltivato o un meleto: è chiaro, anche in assenza di esplicite costruzioni umane come silos o fienili, che quello è un paesaggio antropico. Eppure esso conserva, come nel caso dei meli in fiore, o delle distese color oro del grano, ancora un grande senso di natura. Tali ambienti, quindi, sono valutati distintamente in base al fatto che siano immediatamente discriminabili le prove degli effetti delle passate attività umane. Un ruolo fondamentale in questo gioca l’educazione.

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Un secondo problema nel categorizzare un ambiente naturale, rispetto ad uno antropico, sta nell’ubiquità degli artefatti umani. Un ambiente naturale è spesso inteso come tale nonostante le scie degli aerei, i cavi elettrici o rimasugli di spazzatura spesso presenti in quasi ogni luogo accessibile. Per questo, non possiamo scindere la categoria di “ambiente naturale” da una decisione arbitraria. Un paesaggio montano, potrebbe essere considerato un ambiente naturale nonostante la presenza di una teleferica. Altrettanto non si può dire nei confronti di una zona militare recintata , difficilmente riusciremo a considerarla ambiente naturale. In ogni caso l’aspetto naturale dovrebbe essere predominante rispetto a quello antropico. In questo caso dobbiamo fare pace col fatto che l'umano è più o meno ovunque, e non passa quasi mai in punta di piedi.

Un terzo problema in questa giustapposizione sta nell’introduzione di ambienti naturali in ambienti antropici, come un fiore in un vaso o un’isola di parco cittadino in mezzo alla strada. Questi, sono da considerarsi ambienti naturali? Nonostante spesso vengano associati al dominio dell’ambiente naturale, soprattutto da cittadini che vi abitano, se pensiamo a cosa rappresenta la natura in questo contesto, potremmo notare che la sua funzione è quella di essere una controparte, la risposta ad una necessità all’eccesso di artefatti in un determinato contesto antropico. Esaurisce in ciò, potremmo dire quindi, la sua funzione.

Un’ultima, ma essenziale, considerazione sul tema è che il tentativo di concettualizzare la natura differenziandola dal dominio umano, è esso stesso un tentativo che fa parte di una cultura umana, diversa per un nativo peruviano piuttosto che per un cittadino milanese. Come per lo scritto originale di Wohlwill, anche qui, purtroppo, la visione assunta è di uso limitato nello studio di quegli orientamenti che enfatizzano l'intimo legame tra natura e umanità al punto di fondere i due in un insieme inseparabile, che, si auspica, potrà essere un obiettivo sempre più reale. Se ci pensiamo bene, già lo studio dell’interazione tra la categoria “uomo” e la categoria “natura” o “ambiente naturale” ne implica inevitabilmente un certo grado di separazione. Ma questa separazione non è mai esistita fuori dalla nostra mente. Mi auguro quindi, che un giorno tale linea di demarcazione sia così sottile da non rendere più necessaria la distinzione di questi due concetti e, magari, neanche l’esistenza delle discipline stesse che li studiano. Per il momento, però, ne abbiamo un impellente, estremo, bisogno.

Nikodemus


[1] Wohlwill, J. F.  (1983) The Concept of Nature. A Psychologist View, in “Human Behavior & Environment: Advances in Theory and Research”. 6: 5-37
[2] Fromm, E. (1965) Il cuore dell'uomo. La sua disposizione al bene e al male, Roma, Carabba
[3]
Barbiero, G. (2012). Biophilia and Gaia: Two Hypotheses for an Affective Ecology, Journal of BioUrbanism. 1: 11-27
[4]
ibidem Wohlwill, J. F.  (1983)

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